CPIA, momenti di aggregazione e multiculturalità

Intervista alla Dirigente scolastica Prof.ssa Giovanna Messina ex Dirigente del Cpia
Il Cpia luogo di aggregazione

La Dirigente ha guidato per cinque anni il CPIA, Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti, cioè l’insieme delle scuole statali che lavorano per istruire e formare adulti e stranieri.

Ma cosa sono precisamente i CPIA? E perché intervistiamo un’ex dirigente di questi Corsi?

I CPIA, organizzati su base provinciale, ereditano e riuniscono le iniziative formative che esistevano già e che erano dedicate agli adulti sul territorio: corsi serali, centri territoriali (CTP), centri di educazione degli adulti (EDA), scuole carcerarie.

Questi Centri Provinciali, dunque, da un lato offrono corsi finalizzati al conseguimento dei titoli di studio del primo ciclo e del compimento dell’obbligo scolastico, oltre che corsi di alfabetizzazione dell’italiano, corsi di lingue straniere e altri corsi di alfabetizzazione funzionale, necessari per i migranti che giungono in Italia senza conoscere la nostra lingua e i nostri costumi, dall’altro collaborano con gli Istituti superiori per i corsi serali finalizzati al diploma conclusivo dell’istruzione.

La professoressa Messina è stata pioniera di questi corsi, che ha diretto con serietà e competenza da quando sono nati, in una realtà variegata, come quella messinese e della sua provincia, in cui l’utenza scolastica è ricca di migranti minori non accompagnati, di extracomunitari adulti, di giovani adulti italiani che non hanno completato il ciclo scolastico, di persone le cui condizioni socio-economiche, culturali e motivazionali sono multiformi.

Le difficoltà degli alunni stranieri

Redazione: Quali difficoltà incontrano gli alunni stranieri minori che si iscrivono al CPIA?

Giovanna Messina: I minori stranieri incontrano tante difficoltà già nella fase d’iscrizione: i ragazzi non comprendono il contesto in cui si dovranno inserire, hanno difficoltà a muoversi perché, quando arrivano, non conoscono la città. Vivono però in case di accoglienza  gestite da persone che danno loro la possibilità di integrarsi nella nostra realtà, inoltre ogni minore non accompagnato ha un tutore che si occupa di iscriverlo presso il CPIA.

Altre difficoltà sono legate all’approccio al nostro tipo di scuola, che è diversa dalla loro: noi abbiamo degli orari, delle materie che loro non conoscono. Alcuni stranieri, inoltre, pregano più volte al giorno, ma da noi a scuola non possono farlo.

E ancora riscontrano problemi con la lingua e nel relazionarsi con i docenti e con i loro compagni di classe.

L’altra difficoltà è legata alla loro vita, intendo a ciò che hanno subìto nei loro Paesi e prima di arrivare da noi: hanno un vissuto difficilissimo, che sicuramente crea problemi di relazione con gli altri.

R: Ecco, proprio questo volevamo domandarle: come si rapportano questi ragazzi con la nostra lingua?

G.M: All’inizio hanno serie difficoltà nel conoscere le strutture grammaticali, che sono già difficili per noi, nell’affrontare un discorso semplice, nel leggere e decodificare un testo. Devono passare da una fase di alfabetizzazione, nel senso che iniziano a conoscere la grammatica italiana, ma che coinvolge  anche altre discipline come la matematica, le scienze, la tecnologia, e poi man mano devono arrivare all’integrazione di nuove parole, di cui devono conoscere il significato per arricchire il loro lessico di base, perché per avere la possibilità di lavorare hanno bisogno di conoscere la nostra lingua.

La scuola nei Paesi d’origine

R: Che tipo di percorso scolastico affrontavano gli alunni nei loro Paesi, quali sono le differenza tra il loro e il nostro percorso?

G.M: Loro non hanno una struttura educativa come la nostra.

Noi gestiamo l’attività scolastica con orari precisi e giornalieri, distinguiamo le varie discipline. Loro spesso hanno un unico ciclo, non hanno delle materie che si diversificano. Proprio la struttura e l’organizzazione scolastica cambiano da Paese a Paese: c’è differenza tra le scuole del Nord Africa e quelle del Bangladesh o cingalesi. Sono comunque tutte completamente diverse dalla nostra, perciò quando i ragazzi arrivano in Italia devono abituarsi al nostro sistema scolastico, ai nostri programmi, alla scansione oraria, al  monte ore per disciplina (ma è ciò che accade anche a voi se andate in altri paesi dell’Unione Europea).

La nostra è una programmazione nazionale, non è per singola città: il nostro Ministero fornisce delle indicazioni a cui tutti dobbiamo attenerci. Nei loro Paesi non è così, l’organizzazione cambia addirittura da regione a regione. In alcuni posti, appunto, hanno un solo ciclo, in altri non esiste la scuola primaria di primo grado (scuola media), oppure è più breve la scuola secondaria di secondo grado (scuola superiore).

Dispersione scolastica

R: Ci sono studenti che abbandonano la scuola, se sì perché?

G.M: Sì, alcuni abbandonano la scuola quando compiono diciotto anni: vanno via dalla nostra città o dalla nazione, per andare in altre perché hanno parenti o amici.

Alcuni abbandonano perché non ce la fanno ad affrontare un tipo di studio come il nostro, avendo anche il grosso problema della lingua.

Altri vanno via perché hanno l’esigenza di lavorare, sebbene possano farlo dato che il CPIA è una realtà scolastica pomeridiana, che dà la possibilità di lavorare di mattina e di studiare nel pomeriggio, inoltre contempla per ogni studente l’organizzazione del Patto formativo che prevede che ciascuno abbia  un proprio  monte orario, in genere ridotto. Non è come per voi, che dovete frequentare tutte le materie e tutte le ore di quell’anno scolastico. 

Altri ancora abbandonano perché hanno l’esigenza di ritornare al loro Paese d’origine, come i cingalesi o i marocchini, che vogliono ricongiungersi con le loro famiglie. Voi siete con i vostri cari, studiate nella vostra città, potete frequentare la scuola senza eccessivi problemi. I minori non accompagnati hanno tante difficoltà. Anche se non per tutti è così. Ad esempio al Bisazza, l’Istituto che adesso dirigo, ci sono due alunni extracomunitari iscritti alla scuola superiore, che hanno fatto passi da gigante. Sono arrivati qui che quasi non sapevano parlare l’italiano e ora scrivono e parlano bene e si interfacciano con i compagni senza alcun problema. Se vogliono possono studiare per affrontare l’università.

Le difficoltà dell’inclusione

R: Quali difficoltà riscontrano i docenti nel lavoro di inclusione di questi ragazzi?

G.M: “Inclusione” è un termine che all’interno del CPIA deve esistere a 360° proprio perché è importante l’azione inclusiva. I ragazzi che si iscrivono provengono da vari Paesi e con loro ci sono anche ragazzi italiani. Certo, i docenti riscontrano tante difficoltà proprio perché sono molte le differenze tra gli studenti sia dal punto di vista delle tradizioni che per il modo di pensare, proprio perché non sono tutti degli stessi Paesi.

Nonostante ciò, i docenti riescono a  lavorare con tutti creando davvero un gruppo classe. Sebbene all’inizio gli studenti non si relazionino né tra loro né con i professori, questi ultimi sono capaci di far venire fuori la personalità di ciascun alunno,  fanno in modo di realizzare un rapporto positivo sia con i compagni che con loro stessi. E devo dire che negli anni in cui ho diretto il CPIA ho visto che si respira molta empatia, anche con i docenti.

Una cosa bellissima che ho riscontrato è che quando un professore chiedeva loro di aspettare in classe, obbedivano alla lettera e non si muovevano. Gli stranieri, rispettano molto il docente e lo riconoscono come figura fondamentale nella loro vita e in ciò che stanno facendo, perché sono ragazzi, e come tali, hanno tanta voglia di lavorare e di stare con gli altri.

La Dirigente ci chiede se anche noi siamo così obbedienti…Abbiamo preferito non rispondere!

Comprendere l’altro nella sua diversità

E’ bello anche far conoscere le nostre tradizioni per farli avvicinare al nostro modo di pensare e di essere. Ma è importante che noi ci avviciniamo al loro modo di essere per comprendere l’altro nella sua diversità. È un principio che tutti dovete avere: non bisogna mai discriminare, ma accettare il diverso e accoglierlo. Un gruppo formato da persone diverse da noi per cultura, tradizione, ci rende migliori e aperti.

Non vi nascondo che questi cinque anni al CPIA mi hanno arricchito molto: quando andavo in classe a incontrare i ragazzi, mi facevo raccontare le loro tradizioni, cosa mangiavano, quali pesci cucinavano, se preferivano il riso o la pasta. 

Anche loro hanno avuto modo di conoscere le nostre tradizioni: hanno fatto una bellissima esperienza quando li abbiamo portati in una focacceria per un progetto e abbiamo fatto assaggiare la nostra focaccia, che poi hanno anche preparato loro. Lo hanno vissuto come momento bellissimo, si vedeva la felicità nei loro occhi, perché avevano realizzato qualcosa.

Epserienze uniche

R: C’è stata un’esperienza che le è rimasta impressa?

G.M: Si, tantissime esperienze, soprattutto perché per me era tutto nuovo: il CPIA non esisteva, io sono stata la prima Dirigente su Messina.

 Le esperienze che mi hanno toccato in particolare sono i racconti che i migranti facevano, nei quali si vedeva la sofferenza: la partenza dal loro Paese, l’allontanamento dalle loro famiglie e il modo in cui le lasciavano attraverso i barconi che li portavano sulle nostre sponde, i tanti sacrifici dei loro genitori, che dovevano pagare per poterli fare arrivare da noi. Sono racconti molto  forti che lasciano il segno. Capisci che questi ragazzini, proprio ragazzini come i miei figli, fanno immensi sacrifici. Per questo dico che dobbiamo essere accoglienti nei loro confronti e far capire loro qual è la strada più giusta, perché non hanno famiglia, non hanno genitori, nessuno su cui appoggiarsi.                    

Le altre sono esperienze positive, come le gite che abbiamo fatto, per esempio a Palermo, dove ci hanno accolto in una scuola e abbiamo presentato un libro scritto dai nostri alunni sul loro viaggio e un e-book su come era vista la donna nella loro religione, mettendo a confronto la visione della donna in Occidente e in Oriente. Abbiamo cantato anche le loro canzoni e tutti si sono alzati per ballare insieme a questi ragazzi. Cosa bellissima e coinvolgente.

La ricchezza della conoscenza

Posso raccontare tante altre belle esperienze, per esempio quando parlavamo con loro riguardo ciò che facevano nel loro Paese. A questo proposito c’era un ragazzo che nella sua terra faceva il sarto e qui ha preparato i vestiti di carnevale per i suoi compagni: noi abbiamo comprato le stoffe e lui le ha cucite. E poi abbiamo fatto tante feste proprio per creare il gruppo classe.

R: Cosa si può fare per far integrare lo studente straniero a scuola e per far migliorare il suo metodo di studio?

È necessario che lo straniero faccia dei corsi particolari, sempre all’interno del curriculo  scolastico, con dei percorsi di alfabetizzazione, perché è fondamentale conoscere la lingua  per conversare con i compagni ed esprimersi, altrimenti si rischia di essere esclusi.

Ciò che ritengo davvero importante  è  far comprendere a tutti che ci sono persone che hanno culture diverse dalle nostre e che ci arricchiscono. Bisogna riuscire a creare in tutti noi la cultura del diverso che non significa sminuire ma arricchire, arricchire moralmente, socialmente, culturalmente e far comprendere l’importanza della diversità già dalla scuola dell’infanzia.

La scuola come momento di aggregazione di culture diverse, come arricchimento morale e culturale, come opportunità di inclusione. Questa è la scuola che ci ha fatto conoscere la Dirigente Giovanna Messina, che per cinque anni ha condiviso con minori non accompagnati e con extracomunitari adulti  momenti di gioia e di ricordi, di feste arricchite con i sapori e i colori del mondo. 

Ringraziamo la Dirigente per il suo contributo che ci ha dato e per l’opportunità di conoscere la realtà scolastica dei migranti.

 

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