Liliana voleva vivere
“Fino a quando la mia stella brillerà”
«Alla fine della giornata, il mio mondo di fantasia, al quale mi aggrappavo per “fuggire” dal campo, era diventato una piccola stella che vedevo in cielo… le parlavo… le dicevo: “Finché io sarò viva, tu, stellina, continuerai a brillare nel cielo…» È questo un passaggio del libro Fino a quando la mia stella brillerà, un romanzo scritto da Daniela Palumbo che ha raccolto la testimonianza di Liliana Segre, allora bambina ebrea deportata ad Auschwitz. Un romanzo che parla sia dell’Olocausto, sia dell’indifferenza.
Liliana Segre, sopravvissuta al più indescrivibile crimine commesso dall’uomo e testimone infaticabile, oggi è memoria vivente.
L’infanzia
“Nonna mi racconti di quando eri bambina?” Questa fu la domanda che innocentemente il nipote fece alla nonna Liliana Segre. Da qui lei trovò il coraggio di ricordare di nuovo quello che aveva vissuto e raccontarlo al mondo intero. Liliana è nata a Milano il 10 settembre 1930. È cresciuta con i nonni e con il padre, Alberto.
Trascorse un’infanzia felice, piena d’amore e “normale”, fino al 1938. Prima di quella data lei e la sua famiglia vivevano felici e spensierati. Il padre lavorava nella fabbrica di tappeti di famiglia e aveva un ippodromo. Lei adorava dare il nome ai cavalli appena nati e amava vederli correre alle gare. Usciva con il nonno a fare passeggiate in carrozza e lo ascoltava mentre raccontava i suoi ricordi di quando era bambino. Liliana era una bambina come tante, con una vita serena, fatta di svaghi, compagni, studio, amore. Aveva molte amiche con cui giocava al parco e che invitava a casa.
Le leggi razziali
Nel 1938, all’età di 8 anni, fu espulsa dalla scuola a causa delle leggi razziali emanate in Italia. Una vita che troppo presto cambiava annullando l’infanzia spensierata. Le leggi razziali vietavano agli ebrei di frequentare la scuola pubblica o svolgere mestieri come avvocato, banchiere, medico, giornalista e commercialista.
Il padre di Liliana la fece continuare a studiare in una scuola privata per cercare di far sentire la figlia come gli altri bambini non ebrei.
Liliana era ancora troppo piccola per capire cosa stesse succedendo agli ebrei in quel periodo. Lei e quelli come lei venivano trattati come appestati. I vicini ariani non li salutavano più, alla fabbrica del padre non andava più nessun cliente. Nessuna delle sue amichette la chiamò più per giocare. In strada venivano insultati e guardati con sospetto. Rimasero soli. Quando chiedeva il motivo dell’odio che era costretta a subire nei suoi confronti, il padre rispondeva sempre: “non è colpa tua Liliana, ma purtroppo noi ebrei non siamo amati qui”. Lei adorava la vita e si sentiva la bambina più felice al mondo, prima delle leggi razziali. Lei, come tanti altri bambini, è stata privata del diritto di essere una bambina.
Dopo il 1941, quando gli Americani entrarono in guerra, la situazione per gli ebrei continuò a peggiorare ulteriormente. Le camice nere, la polizia di Mussolini, passavano a qualsiasi ora del giorno e facevano irruzione nelle case per controllare i documenti ai cittadini. Molti degli amici ebrei della famiglia Segre iniziarono a partire, perché capirono che la situazione sarebbe peggiorata.
La fuga verso la Svizzera
Nel 1943 Liliana e il padre cercarono di scappare in Svizzera, ma fu un viaggio inutile e vennero rimandati di nuovo in Italia dove vennero subito arrestati. Passarono un anno tra un carcere e l’altro fino a quando il 30 Gennaio 1944, lei, il padre ed altre 605 persone, partirono dal binario 21 della stazione centrale di Milano verso l’inferno. Da quel viaggio fecero ritorno solo 22 persone. Dopo una settimana passata su un carro bestiame, al buio, al freddo, senza lo spazio per potersi muovere e con un secchio per fare i bisogni, arrivò ad Auschwitz-Birkenau. Durante il viaggio Liliana non aprì bocca, rimase in silenzio. L’unica cosa che la consolava era stare abbracciata a suo padre. Cosa avrebbe potuto mai dire o fare? Tutti su quel carro restavano in silenzio, tutti avevano perso le speranze.
Auschwitz
Arrivata ad Auschwitz fu strappata dalle braccia del padre; quella fu l’ultima volta che Liliana lo vide e non lo scorderà mai. Proprio l’amore di e per suo padre sarà la sua salvezza, ciò che la terrà in vita per oltre un anno di detenzione, di inferno.
Al campo la prima cosa che le SS facevano, era dividere gli uomini dalle donne e dai bambini. Dopo essere stati divisi a tutti i deportati venivano rasati i capelli, dovevano indossare un pigiama a righe e venivano marchiati con un numero. Li dentro chi entrava finiva di essere una persona, ma diventava uno Stück, cioè un pezzo. Quei campi erano adibiti per sterminare chi vi ci entrava. Non esisteva umanità, ma solo odio, morte e violenza. I prigionieri venivano uccisi, picchiati, privati della loro dignità e vivevano in condizioni disumane. Non venivano nutriti, avevano solo un pigiama a righe per proteggersi dal freddo, lavoravano senza sosta tutto il giorno.
Ad Auschwitz si uccideva anche solo per noia, per gioco, per antipatia. L’unica cosa che si poteva fare era obbedire in silenzio. Li dentro non si poteva essere umani, si doveva solo lavorare.
Auschwitz non si può dimenticare
Liliana voleva vivere. Il suo istinto di sopravvivenza la spingeva a non guardare le cose terribili che accadevano intorno a lei, si era chiusa in sé stessa. Era diventata egoista e pensava solo a lavorare e a rispettare le regole. Aveva messo in pausa la sua mente e il suo cuore per cercare di resistere. Nei campi di sterminio non esistevano delle persone, ma solo morti che camminavano. Ogni giorno era un dono. Le condizioni durissime da sopportare riducevano i prigionieri in scheletri senza forze, malati e vivi solo per miracolo. Auschwitz non si può dimenticare.
L’ultima parte del romanzo si concentra sul dopo. Un ritorno ad una normalità che non c’è più.Tornare alla normalità non è stato facile dopo essere stati prigionieri al campo. Liliana era cambiata, tutto era cambiato. Sentiva di non poter parlare di quel dolore nemmeno in famiglia, non avrebbero capito. La sofferenza di Liliana è impossibile da dimenticare, gli psicologi dicono che i sopravvissuti ai campi di sterminio portano un male di vivere dentro di loro che trasmettono fino a tre generazioni successive. Non dimenticherà mai di essere stata il numero che ha inciso sul braccio. Non dimenticherà le urla, le morti, il freddo e la fame che ha provato. Tutte le brutalità intorno a lei che si rifiutava di vedere riaffiorarono. Per lei ricordare è stato difficile, dover affrontare di nuovo ciò che ha vissuto. Liliana sentì di non aver fatto il suo dovere e questa sensazione la logorava.
L’indifferenza può uccidere
Dopo 45 anni ha trovato il coraggio di dare voce alla disumanità di cui è stata vittima.
È impossibile immaginare la sofferenza e il dolore che hanno dovuto subire. Non si potrà mai capire l’odio che offuscava la mente di Hitler e dei nazisti. Si può solo ricordare e non dimenticare ciò che un essere umano è stato capace di fare ad un altro essere umano come lui. Si deve ricordare per cercare di non commettere lo stesso errore nel presente. L’indifferenza ha ucciso sei milioni di ebrei. Li ha uccisi per due volte. Il ricordo è l’unica arma per fare giustizia e la conoscenza è l’unica arma che abbatte la paura.
Karol D’Urso III D Biotecnologie sanitarie