Le comunità di accoglienza: parlano i protagonisti

Intervistiamo il dott. Giuseppe Valenti, educatore della casa di accoglienza “Airone” di Torre Faro (Messina) e il giovane Korka Barry, della Guinea, arrivato a Messina nel 2018.
accoglienza a Casa Airone Torre Faro
Panorama Torre Faro-wikimedia commons
Due punti di vista sull’accoglienza

Sono già presenti e sorridenti il dott. Valenti e l’ospite Korka quando iniziamo a collegarci tutti noi. Sembrano desiderosi di rispondere alle nostre domande e chiarirci l’esperienza dei giovani migranti nelle case di accoglienza.

Il dott. Valenti ci guarda incuriosito, attende i nostri interventi, è calmo e tranquillo. Korka è uno di noi, ride col compagno di stanza, poi guarda il monitor, si muove, attende anche lui.

E l’intervista inizia.

GIUSEPPE VALENTI

Redazione: Che ruolo svolge nella casa di accoglienza?

Giuseppe Valenti: Il ruolo che svolgo è quello di educatore. Cosa significa educatore? Ha vari significati a seconda della casa in cui ci si trova. Io lavoro con minori non accompagnati. Sono dodici ragazzi, non tutti minorenni, perché qualcuno ha già compiuto diciotto anni, e il mio ruolo, assieme ad altre persone, è quello di accompagnarli in tutta una serie di attività e di produrre per loro i documenti che saranno utili per il loro futuro qui in Italia.

Curiamo, infatti, tutta la loro documentazione, da quella sanitaria a quella legale, all’iscrizione a scuola (tessera sanitaria, carta d’identità, permesso di soggiorno, ecc.). Cerchiamo anche di curare la loro educazione, di insegnare a gestire la loro attività all’interno della casa, di metterli in comunicazione con reti sociali che fanno parte della nostra realtà messinese: facciamo svolgere loro attività sportive, incontri con associazioni di volontariato o con le scuole, li aiutiamo a studiare, li seguiamo anche nell’attività di cucina, nella pulizia dei locali. Controlliamo che rispettino le regole: nella casa ci sono orari di entrata e di uscita e vari aspetti burocratici che cerchiamo di fare seguire.

Un sistema paradossale

R: La risposta che lo Stato dà alle esigenze dei minori stranieri soli, secondo lei, è sufficiente? Cosa si dovrebbe cambiare?

G.V.: Finora ho semplificato e sintetizzato molto il discorso. Conta moltissimo quello che si fa e come si fa, perché il tutto è collegato sia ai tempi che agli aspetti economici della gestione.

È importantissimo quello che si fa e ci sono persone che lavorano col cuore. Ci sono però varie problematiche legate al tempo in cui i minori stanno in questi posti. Un operatore, o pochi operatori, lavorano con ragazzi di diverse età, con necessità e interessi  vari, che vanno in scuole diverse. Il rischio è che chi è più capace di chiedere aiuto, riceve aiuto, chi per difficoltà linguistica, per timidezza, non ci riesce, non lo chiede e non lo riceve (come purtroppo succede nelle scuole). Paradossalmente questo sistema aiuta chi ha meno bisogno.

Tempi stretti per un progetto di vita

Anche la questione dei tempi: i minorenni in un tempo limitatissimo, due, tre anni al massimo, devono conseguire la licenza media, imparare l’italiano, prendere la documentazione, trovare lavoro, altrimenti poi…sono dolori.

Loro hanno vari tipi di permessi di soggiorno ma molto limitati nel tempo. Ora per i minorenni utilizziamo il permesso che prolunga la minore età fino ai ventuno anni. Grazie a ciò i ragazzi hanno la possibilità di poter restare nelle strutture, prendere il titolo di studio, fare tirocini formativi, trovare lavoro.

Solo chi lavora può ottenere un permesso di soggiorno e restare tranquillamente qui in Italia. Non è però tutto così facile, esistono problemi reali: un ragazzo che desidera andare all’università ma che non lavora, rischia di dover lasciare l’Italia. La legge sui minori del 2017 non ha cambiato niente per la fase successiva: fino ai diciotto anni il migrante è tutelato, poi?

Quindi ci sarebbero tante cose da dire e da discutere sul sistema di riferimento. Dobbiamo riflettere su tutto ciò.

Il tempo come nemico

R: Tanti ostacoli, allora?

G.V.: Non esiste un percorso che punta sugli obiettivi da raggiungere, ma esiste un percorso che punta sul tempo: paradossalmente l’obiettivo è il tempo.

Noi educatori abbiamo tre quattro anni in cui dobbiamo far raggiungere ai migranti minori degli obiettivi, se non li raggiungono, non importa.

Dobbiamo occupare tre quattro anni di tempo, questo interessa allo Stato. Non è importante che un ragazzo studi, vada all’università, abbia quindi bisogno di più anni. Quel ragazzo deve trovare un lavoro prima, altrimenti è espulso dal sistema, non solo, ma in patria non può rientrare, per cui non gli saranno aggiornati i documenti, non potrà lavorare, non potrà fare nulla. Paradossalmente quel migrante, costretto a restare in Italia, potrebbe diventare un potenziale criminale.

La carenza dei controlli

Un altro problema sono i controlli nelle case di accoglienza che vengono o non vengono fatti.

E poi, come vi dicevo, è difficilissimo seguire tutti i ragazzi. Ad esempio, dall’esterno può sembrare sufficiente quando in una struttura ci sono quattro educatori per dodici ragazzi, ma non è facile seguirli tutti nelle lezioni, nella pulizia, nell’educazione, nello scontrarsi anche con qualcuno di loro…

Le case dell’accoglienza

R: Secondo lei, allora, è il tempo il vero nemico?

G.V: Il tempo e i controlli, come ho già detto. Ad esempio ci sono i C.A.S. (strutture temporanee apprestate dal Prefetto quando finisce la disponibilità dei posti all’interno delle strutture di prima o seconda accoglienza, in cui il minore rimane limitatamente al tempo necessario al trasferimento in un’altra casa) dove ho lavorato quando ero in Calabria, strtture gestite solo da enti privati o cooperative dove la rendicontazione viene fatta rispetto all’importo che viene erogato per la gestione delle attività che devono essere svolte, non fattura per fattura.

C’è un controllo, o ci dovrebbe essere, sui locali, sulla sicurezza delle attività, sulle persone che vi partecipano. Spesso non si rispetta nulla e diventa tutto un business.

Poi ci sono gli SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), oggi SAI, sorta di attività consorziate, in cui uno dei partner è direttamente il Comune (i Servizi sociali del Comune in particolare) e una o più cooperative o associazioni. Si richiede, inoltre, di creare reti di collegamento sociale sul territorio e di dimostrare che si è in grado di avvicinare i ragazzi alle attività che si svolgono, sia di tipo  sportivo, che di tipo sociale, educativo.

Molto spesso le cose rimangono sulla carta, alle volte funzionano, altre volte un po’ meno. 

L’emigrazione

Io ho avuto la fortuna di lavorare in posti seri, in cui si svolgevano le attività. Resta il fatto che è sempre molto problematico lavorare in maniera corretta e rispettosa nei confronti di tutti. Come dicevo prima, se un tutore si dedica ad uno o due ragazzi, gli altri giovani a chi possono fare riferimento? Questo è un problema serissimo.

Posso porvi io una domanda? Prima di preparare questa intervista, avete studiato la situazione dei migranti? Quali i problemi?

Io mi spingo sempre un po’ oltre. Cerco di capire perché l’emigrazione. Ma cerco di capire anche quali motivi spingono noi a gestire un sistema che non riguarda solo gli immigrati, ma che riguarda tante altre situazioni (tra cui la scuola), che spesso rischiano di essere disfunzionali.

Io mi offro a fare questa intervista, se voi vi offrite a donare almeno quattro ore del vostro tempo per affrontare non solo il tema dell’immigrazione, ma anche le motivazioni che portano noi italiani a occuparci del sistema, in modo da essere in grado, se necessario, di criticarlo e modificarlo. Perché altrimenti continuiamo a prenderci in giro, questo sistema così com’è, funziona male. Alcuni immigrati con i loro sforzi riescono a superare con enormi difficoltà gli ostacoli che questo sistema pone, ma ci sono persone, non perché sono cattive o incapaci, che non riescono a superarli.

Gli educatori

R: Come si diventa educatori e perché si sceglie di farlo?

G.V: Questa è una bellissima domanda e la risposta mette in evidenza le falle di questo sistema.

Chi sceglie di fare l’educatore deve chiedersi come possa intervenire insieme agli altri tutori per quel determinato ragazzo. Ma chi lavora è fastidioso e il “non fare” ci tutela di più e ci permette di non assumerci le nostre responsabilità. Si pensa: faccio il mio e basta. In Italia funziona così.

Fare l’educatore è un’attività per cui ci vogliono vari titoli, laurea in psicologia, pedagogia, bisogna essere assistenti sociali, ma non sono richieste specifiche esperienze nel settore e la scelta non avviene tramite concorso, ma per decisioni dell’ente che ha proprie esigenze e priorità.

Io nella mia follia, ho anche gestito una struttura a casa mia e nei miei uffici, dove facevo attività di formazione professionale. Ho accolto ragazzini e ragazzine rom di Messina che ora sono in tutta Europa, hanno famiglia, lavorano, sono inseriti perfettamente. Mi sono preso delle responsabilità che qui, in queste strutture, non potrei prendere, altrimenti sarei espulso dal sistema. 

In questa struttura istituzionale faccio cose limitate perché, prendermi la responsabilità di affrontare una serie di rischi, significherebbe  coinvolgere tutta la società che gestisce questi spazi, e questo non potrei permetterlo.

L’esperienza con i minori Rom

Ciò che facevo con i minori rom era innanzitutto raggiungere un rapporto di fiducia, motivandoli, solo dopo li facevo studiare. E questi ragazzini, che prima non andavano a scuola, nel giro di pochissimo tempo recuperavano tutto. 

Nelle attuali istituzioni non posso lavorare così. E i ragazzi sono sfiduciati, demotivati. Anche la scuola fa perdere fiducia, dignità, rispetto nell’altro.

Noi stiamo perdendo una generazione. Non ho la presunzione di dire che ho dato o insegnato qualcosa, ma dico che loro, i ragazzi, mi hanno insegnato lo stesso, se non di più.

R: Cosa le ha insegnato Korka?

G.V.: Korka mi ha insegnato come riuscire a farsi coinvolgere tanto nello studio: lui ha investito nella cultura, è il suo modo di poter esistere, di poter dare un significato alla sua vita. La sua unica possibilità di affrancarsi, di raggiungere la libertà, è studiare. I nostri ragazzi non penserebbero mai una cosa del genere. E così anche io.

Noi spegniamo l’interruttore dell’interesse, della motivazione e, se queste mancano, niente riesce bene.  

Le carenze della scuola

Voglio ancora dirvi una cosa, anche questa l’ho imparata dai ragazzini che ho gestito: la scuola insegna a studiare, il problema è come lo fa. Insegna a studiare da soli, spesso senza collaborare con gli altri e decontestualizzando ciò che si studia.

I ragazzi mi hanno insegnato che, quando scoprivano il significato delle cose che studiavano in classe ma di cui poi discutevano fuori, si arricchivano veramente e la loro diventava esperienza, perché erano capaci di elaborarla. Se la conoscenza si ferma nell’alveo scolastico come qualcosa che deve essere studiata per forza, sarà solo apprendimento scolastico.

Una delle carenze della scuola è questa, scindere la conoscenza che si impara a scuola dalla conoscenza reale. È stato bellissimo scoprire che ragazzini di dieci, dodici, tredici anni, quando avevano la consapevolezza del significato di ciò che studiavano e si rendevano conto che aveva un significato anche nella realtà, la velocità di apprendimento aumentava a livello esponenziale.

Korka ha potuto raggiungere livelli scolastici incredibili nel giro di pochi anni, pur non conoscendo perfettamente la lingua, perché ha sempre pensato che lo studio gli servisse e che potesse servire anche agli altri.

E poi nella scuola avere classi di 25-30 alunni… come fa un solo docente a gestire tutti? Per questo è importante prima motivare e far capire che quello che si apprende ha sempre un significato. Anche studiare materie o argomenti che apparentemente non hanno senso, ti insegnano che nella vita dovrai affrontare tutto, pure i momenti difficili, che preferiresti evitare, ma che invece devi fronteggiare e risolvere.

KORKA BARRY

Redazione: Vuoi parlarci un po’ di te? Quanti anni hai? Perché sei partito dal tuo Paese?

Korka: Ho venti anni. Quando sono partito dal mio Paese ne avevo quattordici. Ora posso permettermi di dire quali sono stati i motivi della mia partenza. Ora che studio, che sto imparando, mi rendo conto che i motivi sono tantissimi. Quindi se devo dirvi una ragione precisa e fondamentale è lo studio.

Appena sono arrivato qui la cosa che ho chiesto è di poter imparare e ancora continuo a chiederlo. Quest’anno mi devo diplomare, sto pensando di andare all’università, quindi il motivo principale per cui sono qui è lo studio e ora sono molto contento di aver fatto questa scelta, so di non avere sbagliato.

Provengo dalla Guinea e ho viaggiato per un anno e sei mesi prima di arrivare in Italia.

Relazioni internazionali e rapporti tra Stati

R.: Sappiamo che arrivato qui, pensavi di iscriverti alla facoltà di giurisprudenza, volevi fare l’avvocato. E adesso?

Sì, prima avevo pensato proprio a questo, però adesso ho cambiato idea. Ora mi interessano le relazioni internazionali, i rapporti tra gli stati, quindi Scienze politiche.

Sistemi scolastici a confronto

R.: Che scuole hai frequentato in Guinea?

K.: In Guinea si studia la lingua francese, che infatti parlo benissimo, e ho frequentato le scuole di base. L’istruzione nel mio Paese è organizzata in modo molto diverso da qui. Io ora sono in una classe di 19 alunni. Lì, in Guinea, eravamo 127 persone. Quindi se le lezioni iniziano alle otto tu devi essere lì già un’ora prima, per trovare un posto, altrimenti ti metti vicino alle finestre ed ascolti. Naturalmente ci sono gli istituti privati, per i figli dei ricchi, che non hanno problemi di orario. Queste sono le differenze delle scuole in Guinea.

R.: Quale scuola frequenti a Messina?

K.: Frequento il liceo delle Scienze umane. Sono al quinto anno, quindi devo studiare tanto.

A Messina ho preso la licenza media, poi ho fatto il primo anno di scuola superiore e ho chiesto se ci fosse la possibilità di abbreviare il mio percorso. Quindi ho studiato per due estati per sostenere gli esami e ora sono in quinto. In tre anni ho fatto cinque anni di liceo.

A scuola in Italia

R.: Hai avuto difficoltà a inserirti nell’ambiente scolastico?

K.: Sì, qualche difficoltà l’ho avuta. All’inizio del liceo, quando sono stato ammesso al primo anno e il mio italiano era scarsissimo (non che ora io sappia parlare benissimo, ora il mio italiano è accettabile), la mia insegnante mi ha chiesto se avessi  bisogno di un sostegno. Io ho rifiutato, volevo provare da solo. Mi sono dato sei mesi di tempo e, se non ce l’avessi fatta, allora avrei accettato una docente di sostegno. Questo è stato un momento difficile, perché non conoscevo completamente l’italiano, e dovevo studiare di più per essere considerato allo stesso modo dei ragazzi italiani.

Poi bisogna prendere delle posizioni e decidere se si vuole studiare o divertirsi. A me piace divertirmi, però ci sono momenti in cui so che devo concentrarmi su quello che devo fare, sullo studio.

Il viaggio

R.: Ricordi quali Stati hai attraversato durante il tuo viaggio?

K.: Sì, eccome!!! Sono partito dalla Guinea, ho attraversato  Mali, Burkina, Niger, Algeria, Libia e poi sono sbarcato in Sicilia, proprio a Messina, il 2 aprile 2018.

R.: C’è un modo diretto per arrivare dalla Guinea a Messina o Catania, in aereo?

K.: Certo che c’è! C’è per quelli che stanno bene, che se lo possono permettere! E loro stanno qualche ora per arrivare, noi anni.

R.: Hai avuto problemi a rimanere in Italia, quando hai raggiunto la maggiore età?

K.: Si, li abbiamo tutti, non soltanto io, perché quando sei minorenne sei più considerato, hai più attenzioni. Quando diventi maggiorenne le cose cambiano.

Io conosco tanti ragazzi che hanno dovuto abbandonare la scuola, perché non lavoravano e dovevano pagare l’autobus. Se usi i soldi che ricevi dalla struttura per il trasporto, non ti bastano per mangiare. Non ce la puoi fare, quindi abbandoni la scuola e te ne vai a lavorare in campagna, come hanno fatto alcuni amici.

R.: In base alla tua esperienza, in base a quello che hai vissuto, pensi che gli Italiani siano razzisti?

Parliamo delle persone

K.: Io sono uscito da un bel po’ da questa logica. Prima pensavo così, ma sbagliavo! Non dobbiamo parlare di Africani, Italiani, Srilankesi, dobbiamo parlare della persona: se Korka è cattivo non significa che tutti gli Africani siano cattivi. Parla di Korka, non generalizzare. In tutte le società ci sono persone brave e persone cattive. Se tu ti comporti male con me è facile dire che gli Italiani sono cattivi a causa tua, però è sbagliato. Io ho incontrato tante persone che mi hanno criticato, ma anche tante che mi hanno voluto e mi vogliono tanto bene. Molte persone mi considerano come figlio…ho tantissime mamme qui! Quindi non posso dire che gli Italiani siano razzisti.

R.: Anche in Guinea ci sono pregiudizi?

K: Sì, quando vedono qualche bianco! Io questi termini non li uso più, per me il bianco e il nero non esistono. Quando in Guinea si vede una persona diversa si pensa che sia la perfezione totale, che abbia tutti i soldi del mondo. E’ un pregiudizio costruito.

Un’accoglienza fortunata

R: Che accoglienza hai trovato qui a Messina?

K: Ho avuto qualche conflitto con i miei educatori del centro, però anche questo è bello, perché è un modo per confrontarsi. Ad esempio sulla questione dell’orario: noi dopo le ventidue non potevamo uscire dalla struttura. Durante le vacanze, però, i ragazzi italiani si divertivano senza orari, per cui anche noi volevamo farlo, non volevamo rientrare tanto presto. Questa regola noi l’abbiamo combattuta, ma combattuta con loro, con gli educatori.

La nostra struttura, sebbene avesse dei difetti, aveva anche tanti pregi: se io oggi parlo l’italiano lo devo agli educatori che mi hanno seguito, la loro competenza ha giocato molto in questo. Io sono stato aiutato sempre, anche con i litigi, con i conflitti, a volte con la rabbia, con i silenzi. Ma è stata una bella struttura. Non dico che a Messina non ci siano altre strutture così, ma parlando con gli amici che si trovano in altre realtà, devo dire che sono stato veramente fortunato a vivere in quella casa, eravamo dieci ragazzi e tutti andavamo a scuola. L’ambiente era sereno e mi sono trovato veramente bene.

R.: Ci vuoi raccontare dell’accoglienza  iniziale?

K.: Quando siamo arrivati a Messina ci hanno portato all’hotel Liberty, difronte alla stazione, e siamo rimasti qualche mese. Poi sono stato trasferito nella zona di Granatari, dove sono rimasto per due anni.

R.: Hai trovato una sistemazione, un’accoglienza in tempi abbastanza rapidi?

K.: Sì sì, io mi reputo veramente fortunato e mi dispiace per molti amici che non hanno avuto questa occasione.

Vivere con cinque euro al giorno

R.: Da cosa è stato determinato il cambio di struttura, dopo due anni trascorsi a Granatari?

K.: E’ stato determinato dall’età; quando arrivi ai diciotto anni non puoi più stare con i minorenni. In effetti c’era la possibilità di rimanere ancora fino ai ventuno anni, ma io volevo dare la possibilità ad un altro minorenne di entrare in quella struttura, perché quello che ho avuto io volevo che lo ricevesse anche qualcun altro.

R.: Ora in quale struttura ti trovi?

K.: Sono a Milazzo con altri cinque maggiorenni.

R.: Ti danno una somma di denaro da poter spendere come vuoi?

K.: Il denaro che mi danno è quello che serve per mangiare. Ogni settimana ho diritto a trentacinque euro. In realtà dovrebbero essere cinquanta, gli altri quindici dicono che ce li daranno quando saremo pronti per l’uscita. Trentacinque euro alla settimana sono 5 euro al giorno con cui devi comprare la colazione, il pranzo e la cena.

R.: Con questi soldi devi pagare anche il pullman?

K.: No, il pullman lo paga la struttura.

R: Quindi tu devi fare colazione, pranzo e cena con questi soldi, se abbiamo capito bene.

K.: Insomma, non arrivo con cinque euro, non bastano. Io la colazione infatti non la faccio sempre, ma ormai sono abituato. Comunque non mi importa, io sono proteso verso la mia meta.

Episodi razzisti

R: Qui a Messina c’è stato qualche episodio razzista?

K.: Era la festa del Ramadan, non ricordo se del 2019 o 2020. Stavamo andando in moschea per pregare e sul pullman c’era un signore anziano, che raccontava a dei ragazzi che tutti gli Africani che vivevano qui in Sicilia erano la spazzatura degli altri Stati, quelli che erano stati rimandati in dietro. E continuava spiegando che bisognava stare molto attenti perché gli Africani erano ladri. Ha anche detto di essere stato in Africa, e ha cominciato a citare alcuni Paesi. Io a quel punto mi sono alzato, mi sono avvicinato a lui e gli ho chiesto in quale paese dell’Africa avesse lavorato. Lui è rimasto interdetto perché non pensava che un Africano, potesse parlare così bene l’italiano. Io non l’ho lasciato in pace, perché quell’uomo stava dicendo tantissime bugie. Ho poi invitato i ragazzi a non ascoltarlo. È terribile che un uomo della sua età dicesse queste bugie.

Ora vorrei farvi io una domanda. Per quale motivo andate a scuola?

A scuola per realizzare i nostri sogni

Qualcuno di noi ha voluto rispondere ed è emerso che nella nostra redazione siamo molti i ragazzi che andiamo a scuola per imparare e socializzare, ma soprattutto per realizzare i nostri sogni.

K.: Vi ho fatto questo domanda perché la vita non è facile e ci poniamo tanti quesiti. Anche io avevo dei dubbi e ora, studiando, ho finalmente delle risposte. Mi rendo conto di tante cose, mi sembra che ciò che studio sia la fotografia della realtà. In questi giorni in cui si parla di guerra, penso che se vogliamo la pace, se vogliamo veramente uscire da questo sistema, possiamo farlo solo con lo studio e conoscendo, imparando. Veramente una delle cose più belle che esistono è questa, lo studio.

L’arma più potente che esiste

Quando Mandela diceva “L’arma più potente che esiste è la conoscenza”, ero ragazzino e pensavo fosse solo uno slogan. Invece ora capisco che è vero: quando studi non hai paura di esprimere ciò che vuoi, ciò che senti, ciò che vedi, quindi per poter vivere meglio devi apprendere, se hai l’istruzione puoi fare tutto.

Noi giovani siamo purtroppo bombardati dai social, dai cellulari, che ci distraggono. Tempo fa mi sono arrabbiato con me stesso perché mi facevo distrarre dai messaggi e per questo, il giorno dopo, ad un’interrogazione ho preso un’insufficienza. Mi sono allora reso conto che facebook mi aveva fatto distrarre troppo, così ho cancellato il mio account, e tuttora non ce l’ho, non dico che non lo avrò più, per ora mi disturba. Noi ci facciamo fregare, distrarre dai social. Invece siamo proprio noi giovani che possiamo cambiare le cose. Io partecipo a questo incontro, come a tanti altri, per dare un contributo alla mia generazione, perché avvenga il cambiamento. Questo è il motivo per cui sono qui. E ci sarò quando vorrete.

La burocrazia lavora con il tempo non con le persone

Abbiamo capito, grazie al dott. Valenti, che lavorare nei centri di prima e seconda accoglienza significa accorgersi che c’è molto meno rispetto a ciò che ci si aspettava, che si devono affrontare tanti intoppi per le carenze delle leggi dello Stato, per il numero eccessivo di ragazzi con esigenze totalmente diverse, per la burocrazia che lavora con il “tempo” e non con le persone.

Manteniamo intatti i nostri sogni

E intanto Korka ci invita a continuare a sognare perché, avere lasciato i propri cari, la propria terra, avere affrontato un lungo e doloroso viaggio, per giungere qui da noi, deve avere un significato: trovare la libertà attraverso lo studio, uno studio motivato, responsabile, uno studio che arricchisce e che dona dignità e rispetto a noi e a chi ci sta accanto.

Ringraziamo per il loro speciale contributo il dott. Valenti e il giovane Korka, al quale diciamo “Buona vita”

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